lunedì 10 ottobre 2022

La strega Albertina Bovera

di Chiara Sacchetti

Abbiamo già parlato di streghe, donne che potrebbero semplicemente definirsi in modo piuttosto moderno emancipate e che sono state processate, torturate e spesso purtroppo anche condannate a morte per il loro status, vittime di pregiudizi e di odio anche da parte dei propri compaesani e “amici”.

Oggi raccontiamo la storia quasi sconosciuta di una di loro, Albertina Bovera, una strega Svizzera portata di fronte al tribunale dell’Inquisizione solo perché oltre ad essere vittima delle malelingue e dell’odio dei suoi compaesani, secondo una donna aveva fatto un maleficio a suo marito che accidentalmente era caduto scivolando in un fiume. Una storia, quella di Albertina, come le altre ma che coinvolgerà purtroppo anche la madre e soprattutto avrà un finale (o meglio un’anteprima di finale) piuttosto singolare e insolito: la sola imperfezione di tutta la vicenda è purtroppo che non abbiamo documenti per conoscere l’effettiva conclusione della storia.

Cartina della Vallemaggia

 

Albertina Bovera

Siamo a in Vallemagna nel 1679, Albertina era figlia di Negrina, una donna vedova e abbastanza povera che potrebbe essere definita medichessa perché conosceva bene le erbe, le loro proprietà e le usava per curare se stessa e tutti quelli che le chiedevano aiuto. La ragazza invece, come lei stessa durante il processo testimonia, non sapeva niente di tutto ciò, ma passava le sue giornate a lavorare nei campi.

 

I fatti

Un giorno mentre Albertina era vicino al fiume a lavorare, Giovan Pietro passò di lì con una cadola di legno ma scivolò finendo nell’acqua e slogandosi una caviglia. La ragazza accorse subito in aiuto ma venne vista dalla moglie dell’uomo che non pensandoci due volte le gridò di essere una strega come sua madre e che gli aveva fatto un maleficio e la cosa non sarebbe finita lì. Tornata a casa sconvolta ebbe il presentimento che sarebbe stata accusata e così purtroppo accadde. Dopo pochissimi giorni dall’incidente, al commissario glaronese per la Val Maggia arrivò infatti una lettera anonima di denuncia in cui si raccontavano tutte le malie e gli eventi negativi che Albertina avrebbe commesso in combutta con il demonio. Cominciò così per lei un calvario che finì nel più terribile dei modi.

Fiume con ciottoli

 

Il processo

I nomi citati nella missiva vennero così condotti davanti al commissario, al cancelliere Franzoni e allo scrivano Brizio di Moghegno: la prima a essere chiamata fu proprio Maria, la moglie di Giovan Pietro, quella che gli inquisitori pensavano fosse la responsabile della lettera anonima ma di cui lei negava l’attribuzione sostenendo che non sapeva scrivere. La donna fu un fiume in piena e seppur spesso contraddetta e i fatti minimizzati dagli inquisitori che cercavano spiegazioni razionali degli avvenimenti, confermò e accusò Albertina con una ferocia indescrivibile. Raccontò dell’incidente al fiume, che la ragazza aveva “storpiato” il marito con una malia mentre stava  nascosta alla vista e poi nell’aiutarlo gli aveva procurato ancora più dolore, aggiungendo che lo aveva fatto perché era innamorata di suo marito e per questo gelosa di lei perché l’uomo l’aveva scelta al suo posto. Incalzata dalle domande,, raccontò poi anche che sapeva fosse una strega e che avrebbe ucciso tanti bambini fra i quali anche il figlio dello scrivano, come le aveva raccontato la cugina Giovanna Pincino alla quale a sua volta sarebbe stata la stessa Albertina a confessarglielo. A conferma della sua tesi dichiarò anche che era amica di Giovanna Stornini, la strega processata e fatta bruciare sul rogo l’anno prima e che la madre della ragazza raccoglieva e usava le erbe per fare del male.

Del processo purtroppo non abbiamo tutta la documentazione ma è ragionevole pensare che sebbene il commissario fosse molto scettico sulla colpevolezza, Albertina venne arrestata e chiamata davanti al tribunale per essere processata. Torturata e ispezionata alla ricerca del signum diaboli, Albertina cercò di difendersi dalle accuse, dichiarandosi estranea dall’incidente a Giovan Pietro e dalle accuse di aver imparato dalla madre  ma alla fine dovette cedere e confessò tutto “per quello che voi volete che dicessi”.

La giovane, stanca delle torture fisiche e psicologiche si tolse la vita impiccandosi in cella, ma l’atto convinse ulteriormente i giudici della sua colpevolezza e allo stesso tempo portò anche ad essere accusata la madre che venne chiamata dal tribunale per essere processata anch’essa e processata come strega.

Un processo per stregoneria

 

E cosa accadde dopo?

Negrina provò a discolparsi ma senza fortuna: fu tentata la tortura e qualsiasi mezzo per estorcerle la confessione ma non cadde nel tranello continuando a proclamarsi innocente, difendendo la figlia e accusando i giudici di averla condotta al suicidio. Ma accadde qualcosa di nuovo. Giacomo Ramegni, avvocato di una certa fama, decise di prendersi carico di quel processo e di difendere la donna, cosa mai accaduta in un processo per stregoneria. Con la sua arringa finale di difesa l’uomo scagionava Negrina visto che né durante la tortura né dopo c’era stata una confessione ma anche di conseguenza la figlia anzi dando la colpa ai giudici di quanto accaduto. Purtroppo non sappiamo l’esito del processo vista l’assenza di documenti.


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