Abbiamo già
parlato di streghe, donne che potrebbero semplicemente definirsi in modo
piuttosto moderno emancipate e che sono state processate, torturate e spesso
purtroppo anche condannate a morte per il loro status, vittime di pregiudizi e
di odio anche da parte dei propri compaesani e “amici”.
Oggi raccontiamo la storia quasi
sconosciuta di una di loro, Albertina Bovera, una strega Svizzera portata di
fronte al tribunale dell’Inquisizione solo perché oltre ad essere vittima delle
malelingue e dell’odio dei suoi compaesani, secondo una donna aveva fatto un maleficio a suo marito
che accidentalmente era caduto scivolando in un fiume. Una storia, quella di
Albertina, come le altre ma che coinvolgerà purtroppo anche la madre e soprattutto
avrà un finale (o meglio un’anteprima di finale) piuttosto singolare e
insolito: la sola imperfezione di tutta la vicenda è purtroppo che non abbiamo
documenti per conoscere l’effettiva conclusione della storia.
Albertina
Bovera
Siamo a in
Vallemagna nel 1679, Albertina era figlia di Negrina, una donna vedova e abbastanza povera che potrebbe essere definita
medichessa perché conosceva bene le erbe, le loro proprietà e le usava per
curare se stessa e tutti quelli che le chiedevano aiuto. La ragazza invece,
come lei stessa durante il processo testimonia, non sapeva niente di tutto ciò,
ma passava le sue giornate a lavorare nei campi.
I fatti
Un giorno
mentre Albertina era vicino al fiume a lavorare, Giovan Pietro passò di lì con
una cadola di legno ma scivolò finendo nell’acqua e slogandosi una caviglia. La ragazza accorse subito in aiuto ma venne
vista dalla moglie dell’uomo che non pensandoci due volte le gridò di essere
una strega come sua madre e che gli aveva fatto un maleficio e la cosa non sarebbe
finita lì. Tornata a casa sconvolta ebbe il presentimento che sarebbe stata
accusata e così purtroppo accadde. Dopo pochissimi giorni dall’incidente, al commissario
glaronese per la Val Maggia arrivò infatti una lettera anonima di denuncia in
cui si raccontavano tutte le malie e gli eventi negativi che Albertina avrebbe
commesso in combutta con il demonio. Cominciò così per lei un calvario che finì
nel più terribile dei modi.
Il processo
I nomi
citati nella missiva vennero così condotti davanti al commissario, al
cancelliere Franzoni e allo scrivano Brizio di Moghegno: la prima a essere
chiamata fu proprio Maria, la moglie di Giovan Pietro, quella che gli
inquisitori pensavano fosse la responsabile della lettera anonima ma di cui lei
negava l’attribuzione sostenendo che non sapeva scrivere. La donna fu un fiume in piena e seppur spesso contraddetta e i fatti
minimizzati dagli inquisitori che cercavano spiegazioni razionali degli
avvenimenti, confermò e accusò Albertina con una ferocia indescrivibile. Raccontò
dell’incidente al fiume, che la ragazza aveva “storpiato” il marito con una
malia mentre stava nascosta alla vista e
poi nell’aiutarlo gli aveva procurato ancora più dolore, aggiungendo che lo
aveva fatto perché era innamorata di suo marito e per questo gelosa di lei
perché l’uomo l’aveva scelta al suo posto. Incalzata dalle domande,, raccontò
poi anche che sapeva fosse una strega e che avrebbe ucciso tanti bambini fra i
quali anche il figlio dello scrivano, come le aveva raccontato la cugina Giovanna
Pincino alla quale a sua volta sarebbe stata la stessa Albertina a
confessarglielo. A conferma della sua tesi dichiarò anche che era amica di
Giovanna Stornini, la strega processata e fatta bruciare sul rogo l’anno prima
e che la madre della ragazza raccoglieva e usava le erbe per fare del male.
Del processo purtroppo non abbiamo
tutta la documentazione ma è ragionevole pensare che sebbene il commissario
fosse molto scettico sulla colpevolezza, Albertina venne arrestata e chiamata davanti
al tribunale per essere processata. Torturata e ispezionata alla ricerca del signum diaboli,
Albertina cercò di difendersi dalle accuse, dichiarandosi estranea
dall’incidente a Giovan Pietro e dalle accuse di aver imparato dalla madre ma alla fine dovette cedere e confessò tutto
“per quello che voi volete che dicessi”.
La giovane,
stanca delle torture fisiche e psicologiche si tolse la vita impiccandosi in
cella, ma l’atto convinse ulteriormente i giudici della sua colpevolezza e allo
stesso tempo portò anche ad essere accusata la madre che venne chiamata dal
tribunale per essere processata anch’essa e processata come strega.
E cosa
accadde dopo?
Negrina
provò a discolparsi ma senza fortuna: fu tentata la tortura e qualsiasi mezzo
per estorcerle la confessione ma non cadde nel tranello continuando a
proclamarsi innocente, difendendo la figlia e accusando i giudici di averla condotta
al suicidio. Ma accadde qualcosa di nuovo.
Giacomo Ramegni, avvocato di una certa fama, decise di prendersi carico di quel
processo e di difendere la donna, cosa mai accaduta in un processo per
stregoneria. Con la sua arringa finale di difesa l’uomo scagionava Negrina
visto che né durante la tortura né dopo c’era stata una confessione ma anche di
conseguenza la figlia anzi dando la colpa ai giudici di quanto accaduto.
Purtroppo non sappiamo l’esito del processo vista l’assenza di documenti.
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