di Chiara Sacchetti
È il tribunale ecclesiastico più conosciuto, sorto, (seppur
non con questo appellativo), agli inizi del XII secolo per volere di papa
Gregorio IX che organizzò una nuova e più forte repressione contro gli eretici,
nominando suoi delegati “inquisitori”, scelti prima fra i Domenicani, poi a
partire dal 1245, con Innocenzo III, anche fra i Frati Minori. La struttura di
questa potentissima istituzione si evolse nel corso dei secoli, facendo restare
però immutato il suo obiettivo, ossia quello di reprimere e riportare sulla
retta via “cristiana” coloro che con varie motivazioni ne uscivano. Papa Paolo
III con la bolla “Licet ab initio” del 21 luglio 1542 istituì
Stemma del Tribunale dell'Inquisizione
In realtà la lotta a coloro che non seguivano i precetti
della Chiesa Cattolica, e anzi ne abiuravano le idee e i rituali, era sempre
stata presente nell’organizzazione ecclesiastica, ma a partire dal XII secolo, con
il proliferarsi e il diffondersi soprattutto dell’eresia catara, il problema e
i rischi per
Ma cosa presupponeva questa nuova forma di repressione e
controllo? Il Papa, secondo le nuove leggi, aveva la facoltà di nominare suoi
delegati particolari da mandare a controllare in luoghi prestabiliti dove “eventualmente”
instituire dei processi contro le eresie e contro coloro che praticavano arti
“diaboliche”: gli inquisitori, in altre parole, erano giudici straordinari la
cui competenza era esclusivamente sull’haeretica
pravitas, che si dovevano affiancare (e non sostituire) a quelli ordinari già
presenti e il loro potere giurisdizionale dipendeva esclusivamente dal
Pontefice su sua specifica delega.
Appena giunti nel luogo in cui dovevano esercitare il loro
potere, gli inquisitori esibivano la lettera di delega sulla quale si
indicavano gli obblighi che il Signore del luogo aveva per concorrere
all’azione del delegato, fornendo in contemporanea il suo appoggio e la sua
protezione. Subito dopo l’inquisitore nominava la sua “corte”, costituita da un
vicario, alcuni commissari, probiviri, ufficiali, subalterni (in parte forniti
dal signore stesso), guardiani della prigione e notai, mentre al suo fianco
durante i processi sedeva il vescovo, o in sua assenza, un suo delegato.
Al momento del suo arrivo venivano emanati due editti. Il
primo di fede, con cui veniva imposto a tutti di denunciare gli eretici e gli
eventuali complici; l’altro di grazia, ovvero quel periodo, di solito 15-30
giorni al massimo, durante il quale l’eretico che si fosse presentato
spontaneamente, avrebbe ottenuto il perdono, mentre l’Inquisitore stesso
procedeva d’ufficio verso coloro i quali erano stati citati per pubblica fama,
oppure nominati durante altre testimonianze, e per questo erano chiamati a
comparire davanti a lui.
A testimoniare erano ammessi altri eretici, familiari, anche
di primo grado fra di loro, l’età minima era 14 anni per gli uomini e 12 per le
femmine: l’imputato era informato delle accuse e delle deposizioni contro di
lui ma non poteva difendersi in un confronto diretto con questi, spesso non sapeva nemmeno i nomi ma al contrario era lui che
doveva dare quelli dei suoi compagni; non aveva un avvocato ma poteva produrre
testimoni a discarico.
Il processo si sviluppava alla stessa maniera di quelli
attuali, non fosse stato per l’uso legittimato della tortura, metodo assai
discutibile ma sicuramente efficace con la quale riuscire ad avere la confessione
del compimento di quel reato. Autorizzata definitivamente da papa Innocenzo IV
con la bolla Ad extirpanda del 1252,
e confermata poi sia da papa Alessandro IV (1259) che da papa Clemente V
(1265), la tortura aveva numerose alternative, dalla ruota su cui veniva posto
il corpo dell’imputato e con una serie di ingranaggi tirato fino alla rottura
delle giunture, al “tratto di corda”,
che prevedeva la legatura per i polsi posti dietro la schiena e il tiraggio del
corpo, a cui spesso venivano legati dei pesi. Se certamente erano metodi assai
forti e sicuramente dolorosi, fa molto effetto
pensare che nonostante la loro atrocità, l’ordinamento dell’uso di questo
sistema, doveva avvenire scongiurando però il pericolo di distruzione degli
organi interni e la fuoriuscita di sangue e quindi la morte, a dimostrazione
proprio dell’importanza di questo mezzo per ottenere ciò che era veramente
importante, ovvero l’ammissione del fatto compiuto. Dopo di che si procedeva
però ad una nuova confessione, questa volta “volontaria”, a conferma di quanto
era stato detto prima ma in situazioni di procedure di normalità: di certo
comunque il rito non avveniva una sola volta, anche perché spesso i processi
duravano qualche mese e per questo gli stessi interrogatori erano riproposti,
non solo per una continua “battaglia” fra Inquisitore e imputato che diceva di
aver confessato solo per il dolore, ma anche
al fine di avere un maggior numero di informazioni possibili, non ultimi
i nomi di altri probabili eretici.
Jean_Paul Laurens, Il papa e l'inquisitore, 1882, Museo delle Belle Arti, Bordeaux
In ogni caso una volta terminato il processo veniva emessa la
sentenza. Per fare ciò l’Inquisitore era tenuto a consultarsi con un certo
numero di probiviri (che avevano assistito agli interrogatori o comunque
avevano letto gli atti processuali) che si pronunciavano sulla questione e
sulla pena da applicare. Infine si confrontava con il Vescovo sul giudizio: la
sentenza era letta pubblicamente in una cerimonia chiamata “servo generalis (autodafé)”, così come l’eventuale condanna sul
rogo.
In questo caso la pena del rogo veniva eseguita in pubblico,
su un palco con una pira di legno: famosissimi sono quelli di Giovanna d'Arco,
la pulzella d'Orleans, e quella "fiorentina" del Savonarola, facile
da ricordare per i numerosi quadri che raffigurano il momento, in piazza
Signoria a Firenze, dove adesso, seppur non proprio nel punto esatto, è stata
posta una lapide a terra in ricordo di quell'evento.
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