di Chiara Sacchetti
Francesco Stabili di Simeone, più noto come Cecco d'Ascoli,
nacque a Ancarano nel 1269 (alcuni studiosi collocano la sua nascita invece nel
1259, ma come spesso accade per quest'epoca è difficile poter dare una giusta
notizia in mancanza di fonti certe). La sua giovinezza fu contraddistinta dallo
studio e dalle sue eccezionali capacità, tutti nel paese natio lo consideravano
un negromante per le sue virtù nello scrivere poesie, impossibili per la sua
età se non grazie all'intercessione di qualche essere superiore o potere
soprannaturale. Intorno ai diciotto anni Cecco entrò nel Monastero di Santa
Croce ad Ascoli Piceno, di origine templare, probabilmente scelta
importantissima per la sua successiva formazione di filosofo, astrologo e
alchimista.
In pochissimi anni la sua fama crebbe a tal punto da arrivare a papa Giovanni XXII che lo volle con sé ad Avignone come medico personale, ma qui, dopo aver dimostrato quanto sapeva e la sua bravura come terapeuta, si palesarono da parte di alcuni suoi “colleghi” ira ed invidia per i suoi successi che gli fecero lasciare purtroppo presto l'importante compito. Cecco decise così di lasciare la sede pontificia e se ne andò, in un primo momento a Firenze, dove conobbe Dante. Fu un incontro non pacifico, fatto di incomprensioni ma molto stimolante, costellato di dibattiti di natura letteraria e spirituale. Passata alle cronache del periodo fu la loro discussione su cosa prevalga di più, se l'istinto oppure l'educazione: si racconta che Dante, per dimostrare che la seconda fosse più forte della prima, abbia dato ad un gatto un candelabro acceso da tenere con le zampe, ma all'arrivo di Cecco con un topolino, l'animale avrebbe mollato tutto per inseguire la piccola bestiola. In realtà la diatriba con il Sommo Poeta era certamente più profonda e diretta, tanto che Cecco lo accusava di non essere mai stato veramente né in Paradiso con la sua Beatrice, né tantomeno all'Inferno: il suo corpo, secondo l'opinione dell'alchimista, non poté mai divinizzarsi e fu semmai la sua poca fede a portarlo veramente all'Inferno.
Purtroppo anche a Firenze Cecco ritrovò la stessa difficile
situazione di Avignone, con Dino del Garbo, anch'egli medico come lui, che non
tollerava di essere stato sopraffatto nel suo campo per la corsa alla corte
pontificia così l’uomo si trasferì a Bologna.
Qui trovò un ambiente completamente opposto, adatto ai suoi
studi e alla sua maturazione intellettuale e soprattutto dove non temeva di
manifestare le proprie opinioni astrologiche: a quel tempo la "Dotta"
era il centro culturale più importante e la sua università vantava personaggi
illustri nel campo dell'astrologia e della scienza, come Guido Bonatti,
viaggiatore, consulente delle maggiori autorità politiche dell'epoca e autore
del famoso Tractatus de Astronomia, e
Alcabizio con il suo De principis
astrologiae. Nel 1320 ottenne la sua prima lettura per gli studenti di
medicina con il commento di Ippocrate e della Logica di Aristotele: sarà il
primo passo verso una luminosa carriera che gli valse nel 1326 la cattedra di
ordinario di astrologia e per i commenti all'Almagesto di Tolomeo.
Ma di nuovo seppure lontano entrò in scena Dino del Garbo che
lo accusò davanti all'Inquisitore della provincia di Lombardia, frate Lamberto,
di aver affermato, nei Commentari alla Sfera, l'esistenza di spiriti maligni e la
loro possibile invocazione per mezzo d'incanti. Data la difficile condizione
nello stesso anno Cecco accettò l'incarico come astrologo del Duca di Calabria
a Firenze, ma l'astuzia dello suo acerrimo nemico assieme a quella del fratello,
non gli dette tregua essi riuscirono infatti a mettergli contro lo stesso Duca
Cosimo grazie all'intercessione del vescovo di Anversa, e quindi anche tutta la
città. In realtà qualche cronaca o forse leggenda, narra che Cecco, chiamato a
prevedere la vita della figlia del Duca, Giovanna, avesse predetto alla bambina
che "sarebbe vissuta della sua onestà", oroscopo che non piacque alla
famiglia ducale ma che si sarebbe rivelato esatto dato che la donna avrebbe avuto
poi tre mariti e, si dice, anche numerosi amanti.
Una mattina di luglio del 1327 Cecco venne arrestato con
l'accusa di eresia e incarcerato: i capi d'imputazione riguardavano l'aver
insegnato l'opinione e gli scritti di Ermete Trismegisto, quello di aver
distrutto, con la sua credenza nelle stelle e nei loro influssi sulla vita di
ognuno, la libertà di ciascun uomo, e quindi il libero arbitrio che Dio avrebbe
lasciato a tutti noi, oltre a praticare la negromanzia.
Dopo tre mesi di processo da parte di una commissione (di cui
faceva parte anche Francesco da Barberino, autore dei Documenti d'Amore), il
frate inquisitore R. Frate Accursio dell'ordine francescano, anche in virtù
della precedente inchiesta, condannò Cecco al rogo come eretico.
Il 16 settembre, il giorno dopo quella della sentenza, Cecco
fu bruciato sul sagrato della chiesa di Santa Croce a Firenze. La leggenda
racconta che nonostante il momento, Francesco fosse abbastanza tranquillo,
sicuro di una profezia che lo voleva morto solo fra l'Africa e i Fiori; quando
però il verdetto cominciava ad avvicinarsi e tutto cominciava a diventare
realtà, si dice che avrebbe chiesto spiegazioni: qualcuno tra il pubblico che
stava a guardare, gli spiegò che dietro a lui, oltre la chiesa, c'era un fiume
dal nome Africo e che Firenze, dal nome, è chiamata proprio la città del Fiore.
Arreso alla sua sorte, Cecco confermò con queste parole tutto ciò che aveva
fatto in vita «L'ho detto. L'ho insegnato. Lo credo» e andò incontro al suo
destino.
Firenze, Basilica di Santa Croce, Sagrato
Il mito ci racconta che tutto il suo sapere avesse in realtà
origini oscure. Una sera, mentre si trovava in una osteria, sentì due uomini
che parlavano di un tesoro dentro ad una buca molto profonda e nessuno dei due
si voleva calare a prenderlo. Cecco si avvicinò loro, chiedendo spiegazioni e
offrendosi volontario per scendere. Una volta giù con un po' di luce vide un pentolone
colmo di monete d'oro ma una volta legato ad una corda e fatto tirare su: i due
uomini, (ottenuto quello ciò che volevano), lo lasciarono lì. Con la poca luce
che gli era rimasta Cecco cominciò a cercare un'uscita ma nel suo perlustrare vide
in un anfratto un "libro magico", il Libro del Comando, fatto unicamente
di pagine non scritte, grazie al quale però riuscì a liberarsi e uscire, da cui
avrebbe avuto sì tutto il suo sapere ma che gli avrebbe anche predetto la sua
infausta fine.
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