di Chiara Sacchetti
Il 17
febbraio del 1660 Giordano Bruno venne arso sul rogo a Campo dei Fiori a Roma.
Ma come fu possibile per un religioso (anche se a quel tempo già ex-religioso)
essere condannato per eresia? Come avvenne il processo che lo condannò? E
perché venne dichiarato eretico?
La vicenda di Giordano Bruno è molto complessa
e travagliata, sia per la modalità con cui si svolse tutta la storia che
anche per quello che essa mette in luce, ossia una personalità forte e senza dubbio
dedita allo studio e alla critica e assieme anche un personaggio che visse alla
continua ricerca del sapere e per migliorare la società e soprattutto la Chiesa.
Il processo che lo portò poi alla morte fu lungo e non certamente il primo tentativo da parte dell’Istituzione ecclesiastica di fare chiarezza (e di condannare) i sui suoi pensieri e le sue pubblicazioni, tanto più che uno dei motivi per i quali Giordano se ne andò dall’Italia fu proprio l’istituzione di un processo contro di lui per alcune dichiarazioni date ad un fratello ospite nel convento napoletano dove risiedeva.
Ma nei primi
anni del 1590 Bruno tornò inspiegabilmente in Italia non si sa bene per quali
motivi, forse perché aspirava ad una cattedra di matematica a Padova (presa poi
fra l’altro da un altro personaggio importante e poi anch’esso perseguitato
dalla Chiesa, Galileo Galilei) o perché si sentiva sicuro della sua posizione. Giordano
dopo molte richieste venne infatti ospitato da Mocenigo, un patrizio veneziano,
che gli aveva chiesto di insegnargli l’arte della memoria, in gran voga in quel
periodo e soprattutto molto utile per le sue attività lavorative. L’uomo purtroppo non rimase soddisfatto da quello
che Giordano gli insegnava nella convinzione che non volesse veramente rivelargli
tutte le sue arti e le sue conoscenze, quasi le volesse nascondere perché
oscure. E quando il filosofo comunicò a Mocenigo di andarsene per tornare a
Francoforte per dare alle stampe alcune sue opere, questi la notte del 22
maggio 1592 lo fece richiudere in un solaio dai suoi servitori. Il giorno
seguente poi l’uomo denunciò ufficialmente Giordano Bruno alla Santa
Inquisizione a Venezia e in particolare a Giovan Gabriele di Saluzzo con accuse
gravissime. La sera dello stesso giorno
Bruno venne preso dalla guardie dell’Inquisizione e portato nelle carceri di
San Domenico al Castello assieme ad altre sette persone con le quali
cominciò a parlare e forse anche a rivelare tutta la sua verità, scelta che si
rivelerà purtroppo sbagliata. Pochi giorni dopo con una seconda denuncia sempre
da parte dello stesso accusatore, Giordano venne chiamato a confessare: durante
il suo racconto narrò anche del litigio con Mocenigo e della sua vita, dalla
scelta religiosa fino all’abbandono e all’inizio dei suoi viaggi e della pubblicazione
delle sue opere.
Dopo nove
mesi in cui Giordano pareva andare sulla strada dell’assoluzione, arrivò però
da Roma (forse non proprio casualmente) la richiesta di spostare lì il processo:
il senato veneziano inizialmente respinse la domanda di estradizione, ma come
risposta, la Chiesa di Roma chiese un approfondimento del caso che portò poi alla
conferma dell’accusa di eresia.
Il 27
febbraio 1593 Giordano venne così spostato da Venezia alla città eterna nelle
carceri del Santo Uffizio dove ebbe inizio un nuovo e più pesante processo
contro di lui. Fra i testimoni venne chiamato subito anche uno dei suoi compagni di cella a Venezia, un certo Celestino da Verona,
un frate cappuccino già accusato di eresia e costretto ad abiurare. Questi dichiarò
di averlo conosciuto e di aver capito che era un uomo sostanzialmente falso perché
si dichiarava pentito di quanto detto e scritto ma che in realtà si prendeva
gioco dei giudici e della religione, un bestemmiatore che ridicolizzava i santi
e indulgeva nel peccato della carne. Fu la miccia che dette avvio al processo.
A seguire vennero convocati anche gli altri compagni di cella di Bruno a
Venezia e quello che ne derivò fu un quadro terribile della sua figura. I capi d’accusa alla fine divennero
addirittura 31 che in buona sostanza asserivano che Giordano fosse un uomo
senza religione, venivano contestate le sue opinioni filosofiche e le sue
credenze e in particolare quelle di avere pensieri eretici sulla Trinità, sul
Cristo, sulla Madonna credendo anche nella trasmigrazione dell’anima e nella
molteplicità dei mondi.
Ettore Ferrari, Il processo a Giordano Bruno, bassorilievo nella statua a Campo dei Fiori a Roma
Il problema
principale però era che le accuse provenivano tutte da personaggi inaffidabili
e spesso erano state estorte dai testimoni sotto minaccia e paura, poca cosa
per poter condannare Giordano. Il Papa quindi decise di mettere in pausa il
processo per due anni, durante i quali ricercare le prove delle sue eresie anche
nelle opere del filosofo religioso con i pensieri e le conoscenze eretiche. E le
trovò. Nell’aprile del 1596 venne così creata una commissione per esaminare le sue
opere ritrovate, e dopo un’attenta analisi alla fine dello stesso anno vennero
presentate le censure. Come se non bastasse a poca distanza venne aggiunto anche Roberto Bellarmino,
uno dei più rinomati teologi del tempo e uomo preciso e attento. Giordano
cercò di difendersi da tutte le accuse, portando a sua difesa l’dea che esiste
una verità di fede e una verità di ragione ma le sue tesi non convinsero la
commissione che ritenne le sue considerazioni eretiche.
I giudici
così sottoposero a Bruno 8 proposizioni
ereticali prese dagli atti del processo per farlo abiurare ma il filosofo,
nonostante la confessione, non riuscì a convincerli tanto che la commissione si
divise fra quelli che invocavano la tortura per fargli ammettere le sue colpe e
quelli che richiedevano una ritrattazione completa, un segno quindi di
sottomissione ai teologi del Santo Uffizio.
Ludovico Moroni, Il cardinale Madruzzo, uno dei cardinali inquisitori che lesse la sentenza
A settembre
1599 avvenne la svolta: Giordano firmò
l’abiura ma allo stesso tempo presentò un memoriale a papa Clemente VIII
dove metteva in discussione tutte le sue ritrattazioni: decisione assai strana
che sancirà di fatto la sua condanna a morte. Il Pontefice, compreso quanto
ormai il filosofo sia stato irrecuperabile e convinto delle sue idee, lo consegnò
al braccio secolare che lo sanzionò con la pena capitale, letta l’8 febbraio
dell’anno successivo davanti all’imputato. Bruno alla fine della lettura rispose
con queste parole passate alla storia: «Forse
tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla».
Il 17
febbraio Giordano venne condotto a Campo dei Fiori, spogliato legato ad un palo e infine bruciato sul rogo.
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