giovedì 13 gennaio 2022

Il calendario “Ante Litteram” dei Romani

di Mario Pagni

Fino dai tempi più remoti  gli uomini osservavano il cielo, alla ricerca di risposte alle loro domande o per il semplice ma sempre necessario bisogno di conoscenza. Tutte le antiche civiltà, dai Babilonesi agli Egizi, dai Greci ai Romani hanno sviluppato di fatto, un’ampia cultura sia astronomica che astrologica.

Benché non abbiano fornito un rilevante apporto scientifico alla materia, i Romani praticarono comunque intensamente l’osservazione del cielo, con particolare riferimento all’uso dell’astronomia nelle attività pratiche, come l’agricoltura ma anche nell’arte edificatoria. Seguendo i loro maestri Etruschi  esperti in rituali e vaticini, essi ne razionalizzarono quasi sempre le loro indicazioni, trasformandole per un uso simile ma più immediato e funzionale.

Romolo, mitico fondatore e primo re di Roma, nel dare vita alla nuova città, agì in base alle credenze e alle usanze degli abitanti di tutta la valle del Tevere, rifacendosi però in particolare proprio ai riti dei sacerdoti etruschi, occupandosi anche di stabilire un vero e proprio calendario, che ne rifletteva le tradizioni ma anche le necessarie scadenze ad esse connesse.

Calendario romano

Il calendario romuleo era composto di 10 mesi, per un totale di 304 giorni. L’anno iniziava con Marzo, che aveva 31 giorni, seguivano Aprile (il tempo dei germogli) con 30, Maggio di 31, Giugno di 30, Quintile di 31, Sestile di 30, Settembre di 30, Ottobre di 31, Novembre di 30 e infine Dicembre ancora di 30. Tale calendario era creato e dettato dal re all’inizio di ogni mese davanti alla Curia Calabra sul Campidoglio, luogo dal quale, osservando il cielo, egli regolava le feste in base ai movimenti delle fasi lunari.

In seguito il calendario fu trasformato da Numa Pompilio, secondo re di Roma e grande conoscitore dei fenomeni astronomici, il quale ne modificò la durata complessiva in 355 giorni.

Il calendario romano offre di fatto anche una rappresentazione dell’ordine cosmico, che si riflette e si riconosce nel particolare utilizzo dei numeri dispari, che rappresentano la perfezione, circostanza questa che portò sovente i Romani a far sì che le festività e i giorni chiave, tra i quali il 15 febbraio e il 21 aprile, rispettivamente data della festività dei Lupercalia e data assunta per la fondazione di Roma, cadessero proprio in giorni dispari.

Numa Pompilio

La stessa vita privata, secondo il Magini, “ne era interamente dominata, dal concepimento al settimo mese di gravidanza, dalla preparazione al parto alla nascita, dall’inizio alla fine dei riti di passaggio connessi alla pubertà, al matrimonio, tutti gli eventi sono ritmati dai  moti celesti e dalle cadenze delle festività che li legano. Di modo che la circolarità della vita degli uomini in Terra rispecchia la circolarità del moto degli astri in cielo”.

Ad attestarlo ricordiamo ad esempio che proprio nelle varie campagne di scavo che hanno interessato la città di Pompei, sia in case private che in spazi pubblici, sono stati ritrovati diversi quadranti solari, alcuni dei quali dotati di curve preposte ad indicare sia i solstizi che gli equinozi. Sempre nella cittadina vesuviana troviamo numerose testimonianze della presenza degli astri nella vita quotidiana degli antichi romani: oltre agli affreschi parietali e ad alcune lucerne con raffigurazioni legate a temi astronomici e astrologici, un graffito ricorda il tramonto eliaco di Deneb, stella di classe alfa della costellazione del Cigno.

Questa tradizione rappresentativa  che si è perpetuata nei secoli ha originato in successione un gran numero di calendari agricoli e descrizioni letterarie, che bene mostrano il legame tra il lavoro nei campi con la centuriazione romana e anche il previsto corso delle stelle.

Nell’ambito scientifico le conoscenze astronomiche dei Romani si fanno derivare in prevalenza  dalla solida cultura greca.

Il riferimento fondamentale per lo studio dell’Astronomia presso i Romani risulta senz’altro essere l’opera di Arato che tra il 275 e il 270 a.C. aveva composto i Fenomeni mettendo in tal modo in versi il perduto omonimo trattato in cui Eudosso aveva già ben descritto la volta celeste.

Arato primo fra gli  astronomi romani

Il poema di Arato, diviso in due parti (i Fenomeni e i Pronostici), fu tradotto in latino da Cicerone e Germanico Cesare e presenta un’attenta descrizione del cielo con le costellazioni, i circoli della sfera e la Via Lattea, accompagnata da un calendario dei sincronismi fra le levate delle costellazioni, in una sorta di manuale di “fenomeni” astronomici ad uso sia di contadini che di naviganti. L’opera contiene anche una descrizione delle più antiche costellazioni, tra cui le due Orse, il Boote, o Bifolco e la Vergine con la stella Vindemiatrix (che annunciava la vendemmia) Essa ebbe una notevole diffusione presso tutte le classi sociali romane, a conferma dell’accresciuta attenzione del popolo per l’astronomia legata ad eventi sia naturali che artificiali ovvero legati alle specifiche attività umane.

Busto scultoreo di Cicerone Roma Musei Capitolini

Lo stesso Varrone nel De re rustica, opera in forma dialogica divisa in 3 libri (la coltivazione della terra, il bestiame e l’allevamento della fattoria), associa la pratica dell’agricoltura allo studio degli astri, in questo caso rappresentati in un calendario con annesse le fasi stellari.

Tutto questo ci fa ben comprendere come anche gli antichi sapessero ben associare le loro esigenze pratiche allo studio sia delle precedenti tradizioni che di una conoscenza trasmessa, dalla quale poter trarre il necessario profitto.

Londra British Museum l'opera di Arato raffigurazione di costellazioni


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