di Mario Pagni
Fino dai
tempi più remoti gli uomini osservavano
il cielo, alla ricerca di risposte alle loro domande o per il semplice ma
sempre necessario bisogno di conoscenza. Tutte
le antiche civiltà, dai Babilonesi agli Egizi, dai Greci ai Romani hanno
sviluppato di fatto, un’ampia cultura sia astronomica che astrologica.
Benché non abbiano fornito un rilevante apporto scientifico alla materia, i Romani praticarono comunque intensamente l’osservazione del cielo, con particolare riferimento all’uso dell’astronomia nelle attività pratiche, come l’agricoltura ma anche nell’arte edificatoria. Seguendo i loro maestri Etruschi esperti in rituali e vaticini, essi ne razionalizzarono quasi sempre le loro indicazioni, trasformandole per un uso simile ma più immediato e funzionale.
Romolo,
mitico fondatore e primo re di Roma, nel dare vita alla nuova città, agì in base alle credenze e alle usanze degli
abitanti di tutta la valle del Tevere, rifacendosi però in particolare proprio
ai riti dei sacerdoti etruschi, occupandosi anche di stabilire un vero e
proprio calendario, che ne rifletteva le tradizioni ma anche le necessarie
scadenze ad esse connesse.
Calendario romano |
Il
calendario romuleo era composto di 10 mesi, per un totale di 304 giorni. L’anno iniziava con Marzo, che aveva 31
giorni, seguivano Aprile (il tempo dei germogli) con 30, Maggio di 31, Giugno
di 30, Quintile di 31, Sestile di 30, Settembre di 30, Ottobre di 31, Novembre
di 30 e infine Dicembre ancora di 30. Tale calendario era creato e dettato dal
re all’inizio di ogni mese davanti alla Curia Calabra sul Campidoglio, luogo
dal quale, osservando il cielo, egli regolava le feste in base ai movimenti
delle fasi lunari.
In seguito
il calendario fu trasformato da Numa Pompilio, secondo re di Roma e grande
conoscitore dei fenomeni astronomici, il quale ne modificò la durata
complessiva in 355 giorni.
Il
calendario romano offre di fatto anche una rappresentazione
dell’ordine cosmico, che si riflette e si riconosce nel particolare utilizzo
dei numeri dispari, che rappresentano la perfezione, circostanza questa che
portò sovente i Romani a far sì che le festività e i giorni chiave, tra i quali
il 15 febbraio e il 21 aprile, rispettivamente data della festività dei
Lupercalia e data assunta per la fondazione di Roma, cadessero proprio in giorni
dispari.
Numa Pompilio |
La stessa
vita privata, secondo il Magini, “ne era interamente dominata, dal concepimento
al settimo mese di gravidanza, dalla preparazione al parto alla nascita,
dall’inizio alla fine dei riti di passaggio connessi alla pubertà, al matrimonio,
tutti gli eventi sono ritmati dai moti
celesti e dalle cadenze delle festività che li legano. Di modo che la
circolarità della vita degli uomini in Terra rispecchia la circolarità del moto
degli astri in cielo”.
Ad
attestarlo ricordiamo ad esempio che proprio nelle varie campagne di scavo che
hanno interessato la città di Pompei, sia in case private che in spazi
pubblici, sono stati ritrovati diversi
quadranti solari, alcuni dei quali dotati di curve preposte ad indicare sia i
solstizi che gli equinozi. Sempre nella cittadina vesuviana troviamo
numerose testimonianze della presenza degli astri nella vita quotidiana degli
antichi romani: oltre agli affreschi parietali e ad alcune lucerne con
raffigurazioni legate a temi astronomici e astrologici, un graffito ricorda il
tramonto eliaco di Deneb, stella di classe alfa della costellazione del Cigno.
Questa
tradizione rappresentativa che si è
perpetuata nei secoli ha originato in successione un gran numero di calendari agricoli e descrizioni letterarie, che
bene mostrano il legame tra il lavoro nei campi con la centuriazione romana e
anche il previsto corso delle stelle.
Nell’ambito
scientifico le conoscenze astronomiche dei Romani si fanno derivare in
prevalenza dalla solida cultura greca.
Il riferimento
fondamentale per lo studio dell’Astronomia presso i Romani risulta senz’altro
essere l’opera di Arato che tra il 275 e
il 270 a.C. aveva composto i Fenomeni mettendo in tal modo in versi il
perduto omonimo trattato in cui Eudosso aveva già ben descritto la volta
celeste.
Arato primo fra gli astronomi romani |
Il poema di
Arato, diviso in due parti (i Fenomeni e i Pronostici), fu tradotto in latino
da Cicerone e Germanico Cesare e presenta un’attenta descrizione del cielo con
le costellazioni, i circoli della sfera e la Via Lattea, accompagnata da un
calendario dei sincronismi fra le levate delle costellazioni, in una sorta di
manuale di “fenomeni” astronomici ad uso sia di contadini che di naviganti.
L’opera contiene anche una descrizione delle più antiche costellazioni, tra cui le due Orse, il Boote, o Bifolco
e la Vergine con la stella Vindemiatrix (che annunciava la vendemmia) Essa ebbe
una notevole diffusione presso tutte le classi sociali romane, a conferma
dell’accresciuta attenzione del popolo per l’astronomia legata ad eventi sia naturali
che artificiali ovvero legati alle specifiche attività umane.
Busto scultoreo di Cicerone Roma Musei Capitolini |
Lo stesso
Varrone nel De re rustica, opera in forma dialogica divisa in 3 libri (la
coltivazione della terra, il bestiame e l’allevamento della fattoria), associa la pratica dell’agricoltura allo
studio degli astri, in questo caso rappresentati in un calendario con annesse
le fasi stellari.
Tutto questo
ci fa ben comprendere come anche gli antichi sapessero ben associare le loro
esigenze pratiche allo studio sia delle precedenti tradizioni che di una
conoscenza trasmessa, dalla quale poter trarre il necessario profitto.
Londra British Museum l'opera di Arato raffigurazione di costellazioni |
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