lunedì 11 novembre 2019

Ipazia e la libertà del Vero Sapere

La condanna a morte


di Chiara Sacchetti

Abbiamo parlato nell’articolo precedente della vita di Ipazia, e di come la sua libertà e volontà di sapere e di insegnare, assieme al fatto di essere una donna di una cultura vastissima per il periodo, siano state le ragioni principali della sua atroce quanto ingiustificata morte. Una fine, quella di Ipazia, che viene spesso vista come la fine stessa delle scienze, dello studio e del paganesimo, con la vittoria della Chiesa e delle sue dogmatiche regole. Ma cosa faceva davvero? E come è avvenuta?

Ipazia di John Toland 1720


Come abbiamo visto la volta scorsa, Ipazia a soli 31 anni, fu a capo della Scuola Alessandrina dopo la morte del padre, anch’essa per mano di chi voleva opprimere e soffocare la vera la Conoscenza: qui la donna insegnava e studiava filosofia, matematica, medicina, astronomia e scienza anche sperimentale, riuscendo a dare vita ed uso a molti strumenti come l’astrolabio, l’areometro e l’idroscopio. Il  momento come spesso accade, quello in cui viveva e studiava Ipazia, non era in accordo con i tempi e le esigenze della Chiesa stava già cominciando la sua opera di “conquista” di tutto l’Impero, spesso purtroppo anche a colpi di feroce violenza e repressione: Platone, Aristotele e altri importanti figure filosofiche e scientifiche erano bandite, per non parlare delle donne alle quali non era ne permesso ne consentito dedicarsi allo studio e l’unico sapere era quello che l’istituzione ecclesiastica stessa imponeva. Ma perché? Perché tutti gli studiosi (filosofi o matematici che fossero) insegnavano che si doveva usare sempre la Ragione per accedere al Sapere, andando così contro a quella che era la base stessa della religione, ovvero la fede e l’atteggiamento dogmatico conseguente: essa non poteva e non doveva essere discussa, bensì accettata,  proprio come un dogma, per il fatto stesso di non essere comunque cosa dimostrabile. La donna era per eccellenza un essere inferiore, anzi colei per colpa della quale l’uomo era stato cacciato da Dio dal Paradiso Terrestre e presto anche in combutta con il Demonio per fare chissà quali altre nefaste azioni. Essa non poteva certamente accedere alla Conoscenza alla parità dell’uomo o almeno di certi uomini.
Nel 391 l’imperatore Teodosio con il suo editto aveva dichiarato il Cristianesimo la religione dell’Impero e allo stesso tempo eretiche tutte le altre, dando così inizio ad un guerra senza esclusione di colpi: templi chiusi, biblioteche messe a ferro e fuoco e lotte fra cristiani e pagani per la stessa religiosa supremazia.

Rovine di Alessandria d'Egitto. Un pilastro con una piccola sfinge

Ad Alessandria la situazione era anche peggiore, «il popolo alessandrino, più che altri popoli, è felice nell'avere tumulti. Se, in qualunque tempo, possono averne un pretesto, attuano catastrofici mali, per cui vi sono incessanti fatti di sangue», come ci ricorda Socrate Scolastico nella sua Storia Ecclesiastica. Così studiosi come Teone, la figlia Ipazia e altri compagni cercarono subito di correre al riparo per salvare ciò che  era umanamente possibile e continuando nella loro opera di  studio e divulgazione, purtroppo con una fine, seppur a distanza di molti anni come sappiamo che fu tragica per tutti.
In quell’anno, durante gli scontri fra Cristiani e Pagani,  fu il padre di Ipazia Teone che ne subì le conseguenze, egli nel tentativo di mettere in salvo i volumi della Biblioteca nella nave di Zosino, morì nell’incendio appiccato da una folla che andava in aiuto al vescovo Teofilo per distruggere il simbolo del Paganesimo. Assieme a lui perì anche un allievo, Zeev, e poco dopo gli studiosi Ausenzio e Zosimo, questa volta a bordo della nave di quest’ultimo anch’essa bruciata dai cristiani assieme a tutti i templi all’interno dei quali erano riusciti a mettere in salvo più di 50 mila volumi, ormai anch’essi perduti.

Iscrizione della Biblioteca di Alessandria

Ipazia avrà lo stesso una triste sorte ma in modo più lungo e difficile e soprattutto senza pietà. Vediamolo. Andata completamente distrutta la Scuola, la filosofa  fece nascere dentro casa sua un Centro Studi, ma la situazione di assedio, le continue lotte assieme ad una repressione psicologica, portarono molti degli  allievi ad abbandonare il centro stesso. Donna di grande forza e determinazione, Ipazia rifiutò prima l’offerta del prefetto Egravio di conversione per lei e i suoi studenti, poi partì per un lungo viaggio assieme a Shalim alla ricerca di antichi testi e nella speranza di trovare nuove sovvenzioni per riaprire sia la Scuola che la Biblioteca.
Atene, Pergamo, Antiochia, furono queste alcune delle mete del suo itinerario, nella speranza di trovare il trattato sulla luce di Moco, un atomista fenicio. Tutto però senza risultati, tutto perchè andato distrutto dagli incendi  innescati dagli stessi Cristiani. A Roma ancora si trovavano i pochi difensori della libertà di culto e del Sapere, come Nicomano Flaviano e Simmaco Quinto Aurelio, mentre a Milano Ipazia incontrò il vescovo Ambrogio nella speranza di avere sostentamenti economici per i suoi progetti purtroppo inutilmente. Anzi il vescovo espresse tutto il suo sdegno, non mancando di far notare a Ipazia che ormai non c’era più nulla da poter fare, che la Religione stava già comandando sulla Ragione e che per gli studiosi come lei non ci sarebbe stata alcuna speranza come in effetti  sarà.
A Cartagine,  Ipazia e i suoi incontrarono Agostino, colui che poi sarebbe diventato uno dei Padri della Chiesa, con cui la donna ebbe un accesa discussione, cercando di dimostrare che la religione se mal professata sarebbe stata in realtà un freno alla libertà di ricerca e di studio.

Il vescovo Cirillo

Ipazia divenne così l’ostacolo principale sulla strada della completa accettazione e conquista da parte del Cristianesimo dell’intero Impero Romano. Ci vollero anni per ordire la sua morte, atroce e violenta, senza alcuna pietà né ripensamento, di una brutalità che nemmeno le bestie feroci sarebbero state in grado di fare. Ma alla fine ci riuscirono.
I suoi continui rifiuti alla conversione, la sua tenacia nel voler a tutti i costi studiare e soprattutto insegnare a chiunque per strada, senza alcuna esclusione ogni suo sapere, dare la capacità a ognuno, e non solo a pochi eletti, di ragionare grazie alla vera Conoscenza divennero la sua condanna a morte.
Una sola bandiera si alzò in suo aiuto, il prefetto imperiale Oreste che cercò in tutti i modi di salvare lei e la sua scuola, proteggendola e cercando e ottenendo anche insperate sovvenzioni per la medesima oltre ad alcuni privilegi, pregandola però di smettere di andare per le strade di Alessandria a insegnare caparbiamente il suo bagaglio di scienza.
Ma essa non lo fece. Il 25 marzo 415, pochi giorni prima di essere uccisa, il vescovo Cirillo, con Pietro il Lettore e il prefetto Oreste arrivò a casa della donna, mentre lei stava facendo lezione alla folla che era accorsa, dicendole di smettere di insegnare e di abbandonare subito Alessandria ma Ipazia rifiutò. Nel tumulto che ne derivò il prefetto rimase solamente ferito dall’assalto di uno dei monaci-parabolani, salvato da Shalim che lo condusse ancora sanguintante dentro casa della donna. Qui avvenne l’interrogatorio del feritore che, credendosi forse al sicuro, strappò la spada ad una delle guardie e cerco di uccidere Ipazia,  che fu salvata ancora una volta da Shalim.

Il martirio di Ipazia

E si arriva così al giorno della sua morte. L’8 marzo, pochi giorni dopo il tumulto, Ipazia e Shalim di ritorno da un incontro vennero assaliti da centinaia di monaci-parabolani capeggiati da Pietro il Lettore: Shalim con tutte le sue forze tentò di fermarli ma essi erano troppi e determinati e anche lui dovette cedere.  Essi furono legati e portati nella cattedrale del Cesareo. Pietro strappò le vesti della donna e con le unghie le cavò gli occhi e il cuore, buttandoli sull’altare, poi lasciò il suo corpo nelle mani dei monaci che con le conchiglie lo fecero a brandelli, mentre Shalim assisteva impotente. Una volta terminato un vero e proprio scempio, misero i pezzi del corpo di Ipazia in un sacco di iuta e arrivati davanti alla casa della donna,  la misero a ferro e fuoco. Poi e si diressero verso il Cinerone, dove gettarono nel fuoco i  poveri resti. Pietro infine alzò al cielo le sue mani e le sue unghie insanguinate in segno di definitiva vittoria. La prima vera tappa verso un mondo migliore ebbe così la sua brusca e ingiustificata interruzione e tanto tempo dovette trascorrere prima che nuove valide menti restituissero dignità e valore alla sacerdotessa – scienziato e al suo prezioso operato.

Nessun commento:

Posta un commento